giovedì 12 marzo 2015

QUATTRO CHIACCHIERE AL BANCONE: MATTEO FONTANA



Sabato 28 Marzo si terrà al Teatro Santissima Trinità di Verona lo spettacolo “Verona 8485” ed oggi intervistiamo l’autore del testo, il giornalista e scrittore Matteo Fontana.

- Ciao Matteo. Ci racconti come è nata l’idea di “Verona 8485” e ci puoi dare un’anticipazione su come si svilupperà lo spettacolo? Da chi verrà messo in scena?

Ciao Johnny, ciao ai lettori di A Classified Level. Lo spunto per “Verona8485” è nato dal confronto con amici sulle emozioni e i ricordi legati all’epopea dello Scudetto. Non solo all’annata in sé di quella vittoria, ma più in generale al clima che caratterizzava quel periodo. Verona è una città meno semplice di quanto possa apparire: riservata, quieta, ma piena di contraddizioni, di tensioni più o meno evidenti. Lo è adesso, lo era forse persino di più allora. E si intrecciava ad un’Italia che galoppava sull’onda lunga del boom economico, del craxismo, della “Milano da bere”. Verona non sfuggiva a questo processo evolutivo (o involutivo?). Per questo lo spettacolo, messo in scena da due attori affermati e di spessore culturale elevato come Ermanno Regattieri e Andrea De Manincor, con il supporto di Estravagario Teatro, vuole raccontare, intorno alla leva di quel Verona, la perdita d’innocenza di un mondo che non sarebbe mai più stato come prima. Un viaggio nella memoria, nell’emotività, che dal calcio passa alla società civile.

- Siamo nell’anno del trentennale di quello storico Scudetto: che ricordi hai di quei giorni? Come lo hai vissuto da tifoso allora bambino?

Ho avuto la fortuna di esserci. Ma pure la “sfortuna”, lo dico ironicamente di aver iniziato a seguire il Verona nel 1982. Quindi, la mia esperienza di tifoso è cominciata dai picchi più elevati, in termini di risultati e passione. Insomma: nessuno mi aveva avvertito che mi avrebbero atteso, da lì in poi, stagioni sofferte, delusioni, sconfitte, paure, crisi di panico, patologie correlate all’eccesso di trasporto per il gioco del calcio. Già, intanto, però, ci sono le immagini di quel Verona e di quel “pallone”. A otto anni sono stato a vedere 11 partite su 15 di quel campionato, eccezion fatta per quelle a cui mio papà, che per primo mi ha condotto al Bentegodi, non poteva accompagnarmi. C’erano uno stadio sempre pieno, c’erano campioni leggendari nell’Hellas e anche nelle squadre rivali. Fu travolgente il duello con l’Inter, e poi la sfida con il Torino. E poi le vittorie sul Napoli di Maradona e sulla Juventus di Platini, il goal senza scarpa di Elkjaer proprio con i bianconeri, la potenza di Briegel, il carisma di Osvaldo Bagnoli, che ascoltavo incantato parlare dopo la partita, come un magnetico prete operaio.

- Come è cambiato nel tempo il tuo rapporto con il calcio e con il Verona? Riesci ad avere ancora lo stesso entusiasmo e la stessa passione di quegli anni?

Il calcio di oggi è un lontanissimo parente di quello di allora. E non voglio fare il laudator temporis acti: semplicemente, si è perso la caratura popolare di questo sport. Negli anni dello Scudetto del Verona era spettacolo di costume, momento di aggregazione popolare. Andavi a vedere la partita e c’era un rituale che si è perso: il pranzo in famiglia, la domenica, lo stadio raggiunto con le palpitazioni per l’attesa della gara, i gradoni di cemento con la gente accalcata in misura sempre superiore alla capienza effettiva dell’impianto. Dopo, al rientro, l’immancabile appuntamento con “Novantesimo Minuto” e i suoi volti tipici, con la maestria di Paolo Valenti a dirigere la trasmissione. Alla sera, una volta al mese, la pizza fuori, e dopo il ritorno a casa per vedere anche “Domenica Sprint”. Ero un bambino e, ovvio, tutto era magico. Ma credo che per chi sia piccolo, adesso, non ci possa essere un paragone. Il business comanda il calcio, gli stadi sono vuoti e scomodi. La televisione decide orari e giorni, spesso improbabili, per la disposizione del calendario. Detto questo, sono un giornalista e ogni giorno ringrazio perché posso svolgere, con il cuore e con il cervello, il mestiere più bello del mondo. Dopo quello del calciatore.

- Nello spettacolo si parlerà non solo di calcio, ma anche della storia sociale italiana del periodo. In che modo hai legato le due cose?

Come dicevo in precedenza, Johnny, non si può capire quello Scudetto slegandolo dal contesto in cui è nato. Verona, quella Verona, l’Italia, quell’Italia. Il calcio era un grande specchio del Paese, ricco e ottimista: la Serie A era “il campionato più bello del mondo”. Ora credo che non sia lontanissima dal podio dei tornei più affascinanti del globo. Erano gli anni ’80, e le mode che ancora viviamo, la musica, l’arte, la politica, l’economia, discendono da quanto avvenuto in quell’epoca. Nel testo, così, il tentativo è stato quello di connettere calcio e vicende sociali. L’uno, infatti, non può essere letto in modo corretto e completo senza le altre.

- Recentemente hai scritto, insieme ad Alberto Fabbri, il libro “All’inferno andata e ritorno – Cronache di quando l’Hellas “doveva” sparire”: un Verona molto più piccolo rispetto a quello di Bagnoli, che trovò solamente allo spareggio di Busto Arsizio una miracolosa salvezza dalla quarta serie, ma al quale mi sembra che tu sia molto legato. Ci puoi spiegarne il motivo?

La salvezza del 2008 è stata una svolta essenziale nella storia del Verona. Sottolineavo prima: ho visto il miglior Hellas di sempre. Ecco, ho avuto in sorte la possibilità di seguire (e in quel caso da inviato sul campo) pure il peggiore. Se non ci fosse stato il gol di Ilyas Zeytualev all’ultimo minuto, a Busto Arsizio, il Verona sarebbe, con ogni probabilità, sparito, cancellato da interessi finanziari, dai grandi poteri cittadini, per cui spesso questo club è stato un fastidio, letto come un “asset”, e non come un serbatoio di affetti, il nucleo centrale di una comunità che avrà sì dei difetti, ma è piena di pregi che soltanto vivendola si possono comprendere. E Busto Arsizio ha rappresentato uno dei momenti in cui quella stessa comunità ha avvertito il proprio senso di identità con più forza, dopo lo Scudetto.

- Spazio finale per saluti, parole in libertà e progetti futuri.

Intanto ringrazio Ermanno e Andrea per l’adattamento teatrale del testo che ho scritto e da cui è stato tratto “Verona8485”. Sarà un’emozione vederli sul palco, conosco le loro capacità interpretative, l’empatia che sanno trasmettere al pubblico. Ringrazio Osvaldo Bagnoli e i suoi giocatori per quello che hanno fatto, ringrazio il Verona per avermi cambiato la vita e avermi aiutato quando ho avuto i miei crucci, i miei guai, le mie ansie. Senza questo club non sarei la persona che sono. Tutti i giorni mi rimetto in gioco, come deve fare una squadra di calcio, che venga da una vittoria, da una sconfitta o da un pareggio. Quanto al futuro, mi affido alle parole di Elvis Costello e di una delle sue più celebri canzoni: “Everyday I write the book”. C’è sempre qualcosa da scrivere, qualcosa da vivere, qualcosa da condividere. Vi aspetto al teatro Santissima Trinità, a Verona, il 28 marzo. Un abbraccio.

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